Nel giugno del 44′ il territorio fermano era in procinto di essere abbandonato dai tedeschi in ritirata. I partigiani mossi dalle notizie degli alleati in risalita da sud erano carichi e motivati a rendere la vita difficile ai nazifascisti. I tedeschi il 19 giugno 1944 fecero saltare il ponte vecchio sul Tenna tra Servigliano e Falerone per coprirsi la fuga. La strategia di minare e far saltare i ponti fu portata avanti in tutta la penisola italiana per poter rallentare l’avanzata dei nemici.
L’attacco della Parapina, vicino Servigliano
Prima però, il 14 giugno 1944, i partigiani attaccarono in località Parapina a 3km da Servigliano. Venti partigiani contro una settantina di tedeschi. Tre automezzi incendiati e un numero imprecisato di crucchi morti. Un morto fra i partigiani, Franco della banda di Piobbico, e due feriti tra cui Giovanni Iommi. Probabilmente afferente al raggruppamento bande “Decio Filipponi” era anche Marko Cipelka, che risulta morto a Porto San Giorgio nel giugno 1944. Questo racconto è riportato da Luciano Iommi in maniera più dettagliata.
Sulla facciata di un palazzo, nella principale piazza di Sarnano (Piazza della Libertà), è affissa una lapide dove sono trascritti i nomi di alcuni partigiani italiani e jugoslavi caduti in quel periodo. Gli attacchi e la resistenza era concentrata verso i monti, oggi sempre più depopolati perché offrivano una grande macchia in cui nascondersi.
Riferimento: Giuseppe Mari, La Resistenza in provincia di Pesaro e la partecipazione degli Jugoslavi Pesaro, Comune e Amministrazione provinciale, 1964 p.73.
Il racconto di Luciano Iommi
Avevo 26 anni in quei giorni di settembre, ed ero militare presso il reparto
paracadutisti di Viterbo, in attesa di andare in Sardegna. Il Maggiore mi
aveva detto che dovevo andare là perché quella era stata scelta come mia
destinazione. Io ero Tenente, ed in quanto ufficiale mi potevo permettere
di rispondergli che, se si fosse trattato di andare con l’aereo, sarei partito
anche subito, ma che non mi proponessero di andarci in nave.
Il Mediterraneo era pattugliato da naviglio angloamericano ed era davvero un
miracolo riuscire a raggiungere la Sardegna via mare. Sarei divenuto
certamente cibo per i pesci.
L’8 settembre, quando si seppe dell’armistizio, mi attivai per permettere
ai militari che erano in servizio nella rocca di Viterbo di allontanarsi e
ritornare a casa. Volevo evitare che il reparto cadesse sotto il controllo dei
tedeschi. Infatti, qualche giorno dopo, l’undici settembre, la caserma venne
occupata da truppe germaniche.
A quel punto decisi di partire anch’io: presi il treno ed il dodici ero a casa.
Durante il viaggio non ebbi noie, anzi, avevo l’impressione che in quei
giorni in cui il Governo italiano da amico stava diventando nemico, l’unica
attenzione dei tedeschi era rivolta ad evitare scontri e disordini. Tra l’altro,
molti dell’esercito tedesco provenivano dall’Austria e non erano così
motivati a continuare una guerra che cominciava a delinearsi perdente.
In paese abbandonai gli abiti militari e pensai di darmi alla carriera di
avvocato, dato che mi ero già laureato in Legge; così, passata qualche
settimana, e visto che la situazione pareva tranquilla, decisi di cominciare
a lavorare.
Qui intorno c’erano dei Campi di prigionia di Servigliano, di Monturano,
di Sforzacosta e da lì i prigionieri fuggirono in massa. Tra i prigionieri, chi
poteva cercava subito di scappare verso sud, gli altri si rifugiarono nelle
campagne della zona. Erano principalmente i contadini ad ospitarli.
Nello studio legale dove lavoravo, venivano diversi giovani a chiedere se
dovevano presentarsi alla chiamata alle armi della neonata Repubblica di
Salò. Io sconsigliavo loro di andarci ed invitavo tutti a nascondersi.
Per^ i fascisti del posto mi tenevano sotto controllo, tantè che un giorno
dovetti squagliarmela ed andarmene in montagna.
Nel frattempo, a casa mia chiese ospitalità un prigioniero che veniva dal
Campo di Monte Urano. Si chiamava Douglas, era un inglese. Non ricordo
bene come si avvicinò, come avvenne il contatto, decidemmo di
tenerlo a casa e di nasconderlo.
In casa eravamo pochi: mia madre, mia sorella Jolanda ed io: c’era spazio.
Due miei fratelli erano fuori, uno disperso in Jugoslavia e l’altro prigioniero
degli inglesi in India; un’altra sorella era già sposata. In quel periodo poi,
mio padre era ricoverato in ospedale e mia madre acconsentì senza
problemi.
Prima della mia fuga, il prigioniero passava la maggior parte del tempo
nascosto in casa per evitare problemi. Certo, usciva per andare un po’
intorno casa, ma non si allontanava quasi mai. Anche altri vicini avevano
ospitato dei prigionieri e qualche volta si incontravano tra loro.
Douglas parlava abbastanza bene l’italiano e potevamo comunicare
agevolmente. Era alto e biondo: il classico inglese. Si rendeva sempre
disponibile per i lavori in campagna. Osservava ed imparava. Il lavoro non
mancava, perchè mio padre non c’^’era, ma lui non si tirava mai indietro.
Fui costretto a fuggire perché si divulgò la notizia che ero un antifascista,
perché consigliavo ai giovani di non ubbidire alle leggi dei repubblichini,
e mi presero di mira.
Io ero già al lavoro nello studio legale dell’avvocato Scalazzi, quando una
mattina lo vidi entrare di fretta e dirmi allarmato: “Scappa via che stanno
per venirti a prendere. Proprio qualche minuto fa la guardia m’ha detto che
in mattinata dovrebbero venire ad arrestarti”.
La guardia era un amico e, lavorando in Comune, sapeva dei vari
movimenti dei fascisti.
Fuggii da una porta laterale e prima mi nascosi non lontano da casa, presso
un vicino, poi mi diressi verso la montagna. La scelta di andare in montagna
era dovuta al fatto che lì si era organizzato un gruppo partigiano e la notizia
si era diffusa dappertutto.
Entrai in contatto con alcuni dirigenti del CLN e, fra i tanti, ricordo il
vecchio avvocato Marozzini di Fermo. Qualche volta per tenere i collegamenti mi dovetti fare in bicicletta dalle montagne fino a Fermo, passando
per S. Angelo e S. Elpidio.
Dopo la mia partenza, Douglas rimase a casa per qualche altro tempo,
sempre nascosto. Ma non vi furono, che io sappia, particolari controlli da
parte dei nazifascisti.
Parecchi prigionieri slavi si erano uniti ai partigiani sulle montagne. Io ne
conobbi alcuni, ed uno di loro, durante un’azione a fuoco morì al mio
fianco. Io ero uno dei comandate dei GAP (Gruppi armati partigiani) della
zona e, con il gruppo di Penna S. Giovanni, avevamo organizzato un’imboscata ai tedeschi. Partiti la mattina molto presto, attraversammo il Tennacola ed il Tenna, che erano in magra, ed arrivammo alla contrada Parapina di Servigliano.
Il piano prevedeva un attacco ad un mezzo tedesco che trasportava soldati.
Tutto era pronto. Quando avvistammo l’automezzo, facemmo scattare la
trappola; la nostra intenzione era solo quella di prendere le armi e l’automezzo militare. I tedeschi, colti di sorpresa, non reagirono e alla nostra
intimazione di alzare le mani, subito ubbidirono. Purtroppo durante l’azione alcuni del nostro gruppo, inesperti, vennero presi dal panico e restarono
lontani, nascosti tra il grano alto, lasciando allo scoperto solo Franck, un ex
prigioniero jugoslavo, e me. La conseguenza fu tragica: i tedeschi, appena
videro che eravamo solo in due, misero mano alle armi, facendo fuoco, e
partirono di gran corsa. Una loro pallottola colpì il mio compagno, che morì
subito.
Si trattò di un brutto episodio. In qualità di comandante dei Gap avrei
anche potuto mettere sotto processo per vigliaccheria coloro che, invece di
intervenire, per paura si erano allontanati, lasciandoci esposti al fuoco dei
tedeschi e facendo fallire l’azione. Tuttavia, non volli procedere perché
ormai i nazisti erano in ritirata e di violenze e morti ce n’erano state già
troppe.
Verso la fine dell’inverno, anche un prigioniero polacco venne a chiedere
ospitalità a casa mia. Certo la situazione non era per niente bella. Comunque, la mia casa venne aperta anche a lui, che rimase fino all’arrivo degli
americani.
Ogni tanto di notte tornavo a casa per riabbracciare i miei e vedevo che
tutti davano una mano: avevamo anche le bestie ed ognuno faceva la sua
parte.
Durante quel lungo periodo nacque un rapporto profondo tra il prigioniero
polacco e mia sorella Jolanda; infatti, finita la guerra, tornò per sposarla e
poi partirono insieme per l’Argentina, precisamente per Buenos Aires.
Da là mia sorella scriveva sempre di essere contenta e che si trovava bene.
Purtroppo qualche anno dopo rimase vedova, ma decise di continuare a
stare in quel lontano paese.
Quando arrivarono gli americani e gli inglesi, Douglas si riunì ai suoi e
partì ringraziando per quello che avevamo fatto per lui. Non ne sapemmo
nulla per diverso tempo, poi, qualche mese dopo la fine della guerra, ci
scrisse che stava bene, ringraziandoci ancora di ogni aiuto.
Dopo la Liberazione ho lasciato tutto: non ero fatto per la politica e mi
sono dedicato alla professione di avvocato. Forse ho sbagliato, ma a quel
tempo credevo di fare la scelta più giusta. Ho questo ripensamento vedendo
gli errori della politica di allora e lo squallore della politica di oggi.
Tuttavia, questi sono pensieri di un ottantacinquenne, che ancora è
circondato da scartoffie e cartelle, che sta cercando di fare pulizia e buttare
via le vecchie pratiche. Ma non è facile fare neanche questo.
Dal colloquio
con Luciano Iommi del ^17
Montappone
Aprile 2001